Showroom - Non solo mobili
Come Gilbert Rohde, George Nelson, Charles e Ray Eames e Alexander Girard hanno trasformato lo showroom per favorire la comprensione, stimolare la sperimentazione e rendere piacevole l'esperienza di acquisto.
Scritto da: David Michon
Foto: Eames Office, LLC e Archivi Herman Miller
Pubblicato: 26 settembre 2024
Innanzitutto, lo straordinario showroom assolve due funzioni importanti: in primo luogo, genera in noi - acquirenti, visitatori fisici o virtuali - una risposta psicologica che va oltre il semplice desiderio smodato di possedere; in secondo luogo, ci libera dalla trappola insidiosa di seguire "ciò che fanno tutti gli altri", ovvero quello che fa tendenza. Uno showroom sapientemente realizzato può, piuttosto, liberare dai preconcetti sull'arredamento e spronare i visitatori, anche i più avversi al rischio, a sperimentare o almeno a prendere in considerazione qualcosa di nuovo.
I cinici potrebbero dire che uno showroom ben progettato ha sempre e solo lo scopo di vendere. Eppure, nelle mani di designer intrepidi, questi empori riescono non solo a farci vedere sotto una luce diversa determinate cose che abbiamo dato per scontate o che non abbiamo capito del tutto, ma anche in molti casi a farci divertire. Ed è da qui che inizieremo.
"Folle" e "divertente" non sono le prime parole che ci vengono in mente parlando di uno showroom di mobili, eppure nel maggio del 1961 Hugh De Pree usò proprio questi due aggettivi. Prossimo a diventare presidente della Herman Miller, questa fu la definizione usata dal designer per tessere le lodi del negozio Textiles & Objects appena inaugurato nel centro di Manhattan.
Alexander Girard, che lavorava per Herman Miller dal 1952 come direttore e fondatore del programma tessile aziendale, fu incaricato di creare quello che sarebbe stato il primo punto vendita al dettaglio del brand. In puro stile girardiano, il negozio era una rapsodia di colori e fantasie, dove "follia e divertimento" avevano chiaramente priorità sull'aspetto commerciale. Ad esempio, nelle sue vetrine non erano esposti né una stoica seduta lounge Eames né altri prodotti esclusivi, bensì una collezione di graziose bambole fatte a mano, frutto del lavoro creativo di Marilyn Neuhart di Los Angeles. Queste erano solo alcuni dei tanti oggetti di artigianato esposti sugli scaffali di T&O che Girard aveva selezionato in occasione dei suoi viaggi negli Stati Uniti, in Turchia, Polonia, Portogallo e Italia.
Textiles & Objects dichiarò di avere in magazzino tessuti e articoli tessili, nonché "oggetti decorativi insoliti e simpatici" (di fatto, la tipologia di oggettistica più importante). Sovrapposti l'uno all'altro, sfidavano l'isolamento "commerciale". Scaffali pieni di bambole diverse, mobili rivestiti in vari colori, tessuti appesi al soffitto come striscioni, il tutto contornato da pareti e pavimenti bianchi e luminosi, che conferivano all'ambiente l'atmosfera di una mostra, non di uno spazio prettamente commerciale.
T&O portò le persone nella mente di Girard. E i visitatori catturati dall'atmosfera magica erano esposti a una finalità psicologica, attraverso l'approccio di Girard secondo cui la merce era pensata per essere vista da ogni angolazione e come un qualcosa con cui poter giocare. Immagina una sedia, un cuscino, un tessuto in un ambiente domestico informale, con oggetti artigianali, bambole e ricordi. Un approccio molto spontaneo per un'epoca in cui l'interior design stava diventando sempre più formale.
Questo non era il primo "parco giochi" di Girard. Già nel 1958 aveva trasformato il fatiscente Hippodrome Theatre di San Francisco in, ovviamente, uno showroom Herman Miller: un ambiente carnevalesco, luminoso, color caramella, con la parte centrale espositiva a forma di giostra. Era tutto così lontano da qualsiasi logica di vendita che il collega designer della Miller, George Nelson, dichiarò che non conteneva nulla, né come accessorio né come struttura, che la Herman Miller potesse vendere. Nonostante tutto, però, lo showroom non solo colpì De Pree per il suo aspetto giocoso, ma fece pure guadagnare alla Herman Miller un bel po' di pubblicità.
Nelson aveva un approccio più accademico: gli spazi degli showroom (e il lavoro del designer in generale) dovrebbero aiutarci a comprendere il mondo moderno. Con quella che lui stesso ha definito "la consapevolezza di un artista", si chiese in che modo i gesti del designer potessero "essere in sintonia con le cose" e allo stesso tempo comprensibili in modi nuovi.
Con lo showroom Herman Miller aperto a New York nel 1947, Nelson si avvaleva di allestimenti e tecniche di illuminazione particolari - prassi standard oggi, per incoraggiare i visitatori a lasciarsi trasportare. Chiedeva loro di intraprendere un viaggio, non di curiosare tra le cose.
A tal fine, adottò una prospettiva dal basso. Lo showroom di New York era la sua finestra sul mondo visto con gli "occhi di un topo", dove i mobili venivano guardati dal basso verso l'alto. Nelson descrisse il suo approccio in un saggio del 1957. Osservò un mondo di gambe che definì "subspaziali", in cui vide collegamenti con i moderni grattacieli, gli scarabocchi di Joan Miró, le colonne delle autostrade moderne, le braccia prensili delle sculture mobili di Calder. Il passaggio dalle gambe in legno a quelle in metallo rientrava in questa trasformazione culturale.
Tra i mobili dello showroom collocò delle sculture grandi e imponenti - a New York ce n'era una realizzata dallo stesso Nelson. (In altri showroom erano esposte sculture di Noguchi o Giacometti.) Con un approccio molto diverso da quello di Girard, ma con una sfida simile alla logica del "prodotto", i mobili venivano concepiti come elementi interconnessi, sociali e inscindibili dall'arte e dal monumentale. Veniva chiesto ai visitatori non solo di giudicarli esteticamente, ma di immaginare uno scenario, ad esempio una festa o anche qualcosa di più grandioso.
Gli showroom di Nelson a New York, Grand Rapids e Chicago richiamano il primissimo showroom dell'azienda, quello di Chicago del 1939, progettato da Gilbert Rohde, un uomo che ha contribuito notevolmente all'affermazione di Herman Miller come produttore di mobili moderni e di atmosfere magiche. E per Rohde, come per Girard e Nelson dopo di lui, lo showroom era uno strumento. A Chicago, le linee dritte e moderne dei mobili Herman Miller erano compensate da sagome e soffitti a forma di ameba e da pareti curve o perforate. Anche se forse in modo quasi impercettibile, l'ambiente racchiudeva un senso di fluidità e cambiamento, e il piacere sensuale di intravedere qualcosa attraverso un'apertura. Cosa c'è di più coinvolgente e attraente di scoprire qualcosa in modo graduale?
Ci sono dei motivi per cui questi ambienti hanno lasciato un segno e per cui li ricordiamo con affetto e persino con un pizzico di malinconica rabbia. Perché in un mondo in cui siamo sempre più ossessionati dalle formule dei contenuti e dall'ingannevole scienza del vendere, è piuttosto raro poter vagare nella mente, o nel laboratorio, di un designer che si mostra attento a noi e alla società oltre che al profitto o talvolta addirittura al suo posto.
Anche le novità, oggi, vengono completamente fraintese: spesso vengono usate come cortina di fumo, non come lente d'ingrandimento. Perciò, celebriamo degli showroom che non solo ci hanno venduto qualcosa di materiale, ma sono anche riusciti a venderci una nuova visione del mondo che ci circonda. Forse, ora più che mai, dovremmo aspettarci che questi spazi fisici ci scuotano da quella routine che caratterizza gran parte della nostra vita digitale.